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Il consulente ICT e il telelavoro

Stiamo vivendo un momento di crisi dovuta, principalmente, ad incapacità altrui e alla miopia di chi ci governa. La crisi investe soprattutto il mondo del lavoro, specie quello legato alle tecnologie dell’informazione.

Da una discussione sul gruppo LinkedIn, collegato al nostro portale degli informatici professionisti, aperta da Ruggiero Lauria e che per la verità era già argomento di molte email scambiate tra me e Rodolfo Giometti, è nata l’idea di produrre un approfondimento.

Ritengo sia molto interessante studiare il fenomeno (nuovo per l’Italia) quale è il telelavoro, che, per le ragioni appena accennate, impone una ridefinizione dei ruoli nelle aziende.

In ambito giuridico mette in discussione categorie ormai consolidate e rende problematica l’applicabilità di tutele prima acquisite pacificamente da ogni tipo di lavoratore. Il mio approccio alla questione è prettamente sociologico, auspicando che qualche lettore possa contribuire seriamente anche sugli aspetti giuridici del telelavoro. Deve essere chiaro che il telelavoro è una forma di lavoro, non è “un altro tipo” di lavoro, meno importante. È l’inevitabile conseguenza dell’attuale congiuntura socio-economica.

Non essendo un esperto in materia ho iniziato a collezionare informazioni tramite Google. In Italia risulta che siano circa 800.000 le persone che in qualche modo svolgono telelavoro. Rientrano in questo conteggio soprattutto gli operatori di call center, ma nel mucchio ci stanno anche giornalisti, impiegati della pubblica amministrazione e “esperti di sistemi informativii”, come il sottoscritto. Si tratta comunque di un numero molto basso rispetto agli altri paesi europei, ad esempio in Finlandia e Svezia un lavoratore su quattro, in media, telelavora, mentre in Inghilterra e Germania una persona su cinque. Eppure l’Unione Europea favorisce questa modalità di lavoro e dal 2002, anno in cui è stato raggiunto un accordo quadro sul telelavoro, fa pressione sui Paesi membri affinché lo diffondano.

In Italia sembra che l’intoppo stia nel “come” gestire il telelavoratore dal punto di vista giuridico e sindacale. La scusa ufficiale, da parte dei sindacati è che occorre dare al telelavoratore le stesse garanzie che hanno i lavoratori in un ufficio tradizionale. Qualcuno più astuto aggiunge che telelavorare comporta l’alienazione sociale.

In verità io a casa mia posso incontrare chi voglio e quando esco di casa incontro chi mi pare e piace, non vedo perché qualche “volpe” del
sindacato debba per forza costringermi a socializzare solo quando sono in un ufficio… Certo, il rischio di imbattermi in qualche attivista
che mi propone l’ennesima iscrizione all’ennesimo sindacato che non mi tutelerà quando ne avrò bisogno è minore, se telelavoro.

In generale, poi, al datore di lavoro non piace il fatto che un suo dipendente non sia presente fisicamente perché non è possibile controllarlo, vedere che cosa sta facendo. In Italia siamo ancora ancorati al modello gerarchico – fordista, del lavoro. È opinione dominante che il lavoratore, se sta al suo posto di lavoro, produce di più e meglio. Ho i miei dubbi e penso che i log di molti “proxy server” aziendali e della pubblica amministrazione potrebbero dimostrare il contrario…

Quindi, per ora, il telelavoro è prevalentemente considerato un lavoro di serie B e spesso viene offerto alle donne in maternità o ai portatori di handicap, di fatto meno agevolati nell’accesso alle strutture pubbliche e aziendali. Meno portatori di handicap si lamentano di non riuscire a muoversi come gli spetterebbe di diritto, e meno “problemi” hanno queste volpi della politica sociale ed economica, ci vuole poco a giungere a questa conclusione.

Un telelavoratore non “incide” sui costi di affitto dei locali, sul consumo dell’energia elettrica e in generale, sulle infrastrutture di mobilità urbana ed extraurbana. Ciò nonostante il telelavoro non viene considerato come un’opportunità in più per ridurre i costi senza licenziare. E, nonostante alcuni sindacalisti dicano il contrario, senza riuscire a provarlo, risparmia persino il lavoratore. È vero, egli sostiene i costi dell’energia elettrica e degli “spazi”, ma sono costi che comunque incidono meno, in generale, rispetto a quelli della benzina e della manutenzione dell’automobile, oppure del tempo sprecato ad aspettare un autobus pubblico.

British Telecom, per fare un esempio, dopo dieci anni di telelavoro ha risparmiato 300 milioni di euro di spesa per gli immobili e 1.800 anni
di tempi di trasferta per il personale.

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